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Wolf Wondratschen ... Un Autoritratto contemporaneo.

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WOLF WONDRATSCHEN … UN AUTORITRATTO CONTEMPORANEO

Una recensione insolita per un libro altrettanto insolito quale questo di Wolf W. che ho appena ultimato di leggere e che non avrei mai voluto smettere di leggere. Ma come in tutte le storie narrate prima o poi si arriva alla fine, a quella conclusione che se non è suggerita dall’autore, è altresì consuetidine immaginare, allorché qui accade che nell’ultima pagina l’autore invita il lettore a ricominciare. Quel che trovo incredibile è che viene spontaneo il desiderio di riprendere da lì dove la numerazione delle pagine s’interrompe per tornare a leggere a ritroso, dall’ultima alla prima …
“L’essenziale è (era) che la storia inizi(asse) in un giorno come quello che sappiamo … in cui il visibile nasconde l’invisibile ... Il caffè è colato, a gocce, a gocce, nella tazza preriscaldata e così, a gocce, (il nostro uomo co-protagonista Suvorin), beve dalla tazza. Atteggia le labbra come un flautista l’imboccatura, ma quello che sentiamo non è un suono, è un sibilo, non forte, e nemmeno sgradevole, come un respiro, il respiro più piccolo che ci sia. La lingua piegata a cucchiaio, accoglie la prima goccia, l’assorbe, felice come questo può renderci felici.”
Un autoritratto è, se vogliamo, una dissonanza del tempo che passa, come dire il passaggio dalla ‘de-costruzione’ della storia, apertamente voluta dall’autore, alla ‘ri-costruzione’ della stessa attraverso le ragioni delle sue scelte. E che siano frammenti di vita vissuta, pause di riflessione, indifferenza nei confronti di qualsiasi ordine, del nonsenso e della convinzione della sua inutilità, solo per riappropiarsi della libertà, ritrovare il senso d’una libertà sociale e democratica nel mezzo delle tante menzogne patriottiche ingiustificate, avallate da una rivoluzione (ottusa) che al contrario d’essere liberatoria è divenuta autoritaria, repressiva e tirannicida ...
Noi tutti sappiamo come la libertà sia anche frutto della verità o almeno della giustizia, in quanto ricusa qualsivoglia ingiustizia, civile, sociale, umana, non poi così insolita, contenuta nella rara citazione di Schiller che l’autore invita a rivisitare, per: “Liberarsi dalla passione, contemplare la realtà circostante con chiarezza e calma, rintracciare ovunque più caso che destino, ridere della stoltezza più che adirarsi e piangere per la malvagità.” Quella liberetà che pure attraversa tutte le pagine del libro con le sue note vaganti in assenza di pentagramma … di cui “con una battuta di spirito degna di un poeta, Kovalev scrisse che la rivoluzione aveva inventato una sedia su cui nessuno può mai sedere.”
Si direbbe la ricerca di un’imperscrutabile perfezione, quando altresì in musica è la dissonanza di tempo a coniugare la qualità di un intervallo come affinità ed eterogeneità fra suoni contrapposti, che altrimenti, diventa imperfezione, tantopiù necessaria all’autore di questo libro a definire il proprio autoritratto come Suvorin, (il protagonista assoluto di questo romanzo con annesso pianoforte russo), prendendo a soggetto non tanto la musica in sé quanto il sé impastato di musica …
“È la musica che mi fa entrare in contatto con me stesso. […] È proprio buffo, in realtà, che voler essere originale per un musicista di musica classica sia un peccato mortale, ma che d’altro canto possa essere faticoso se una persona che stimi come artista non produce più nulla di originale, fosse pure un accenno nel discorso, un gesto, un’idea sorprendente, un pensiero che, quand’anche non portasse da nessuna parte, le sia perlomeno balenato in mente.”
È qui la vera storia narrata in queste pagine, la storia del narratore che introduce il lettore alla conoscenza del musicista Suvorin, il maestro di pianoforte, il barbone incontrato per caso in un caffè, un tempo un musicista di successo che ha abbandonato tutto per abbracciare la libertà di poter essere ‘nessuno’, o forse solo se stesso, ateo e anarchico, contro ogni pretesa di compromesso individuale, sociale, civile e religiosa. Quello che probabilmente è stato Wolf Wondratschek negli anni della Beat Generation tedesca 1960/’70, in cui seguiva i movimenti di protesta, e ancor più verosimilmente aver messo mano a uno strumento musicale …
“Tutto riposa nel legno, dice la musica. Ogni senso è un’equazione, dice la matematica, tacete tutti, dice la poesia. […] Non bisogna essere in un seminario di filosofia, per trovare piacere in conversazioni di questo genere. C’è poco di più invitante della bellezza che si tramanda nella mitologia di oggetti speciali, un violino o un violoncello o un antico tavolo da biliardo.”
Allorquando la poesia si cibava dei versi di Ferlinghetti, Ginsberg, Kerouac, Salinger e altri, (pubblicati in antologia da Fernanda Pivano nel 1964). Chi non conosce “Howl” (Urlo) di Allen Ginsberg che nel 1955 diede la consapevolezza della nascita di un nuovo genere di poesia, autobiografica e denunciataria, e che divenne il "manifesto" del movimento beat, che qui di seguito ne trascrivo l’incipit:
«Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all'alba in cerca di droga rabbiosa, hipsters dal capo d'angelo ardenti per l'antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte, [...].»
Ma è infine il ‘libro’ “– un libro rilegato con cura, su bella carta e in bei caratteri”, che permette a Suvorin di non “smettere di fantasticare o filosofeggiare o, che so, inventare storie, trastullarsi con spunti legati a queste storie (che racconta). Allora tira fuori un (suo) lato molto divertente, molto appassionato, infantile quasi, per meglio dire.”
E il libro è questo che ho fra le mani, che sfoglio con ingordigia, non un tomo pesante, ma un piccolo grande libro vergato con cura, si direbbe in fil di penna, senza trionfi, senza cadute di sorta, fatto di piccole cose, di circostanze occasionali, di momenti poetici sostenuti dalla leggerezza dei pensieri …
“Bisogna immaginarsi, vedendo Suvorin così, un uomo seduto su una panca davanti alla sua capanna, le gambe distese, che riposa, fuma e lascia correre i pensieri mentre osserva un muro di nuvole sempre più nere spinte dal vento all’orizzonte. Sul paese vicino, in lontananza, sta per abbattersi un temporale. Un cane, in lontananza, abbaia”, fino alla citazione cechoviana da “Il giardino dei ciliegi”, in cui la città pur così amata da Suvorin, quella Mosca sognata dalle tre sorelle è più (che mai) vicina.
Ed è all’amore che fa riferimento Suvorin, una storia d’amore “..che inizia a sembrare interessante proprio perché non intende offrire nulla di lascivo, nulla di osceno. Meglio se (di) un amore impossibile, che espone la sua anima a pericoli inesorabilmente sconosciuti. … buona abbastanza, pura abbastanza, interessante abbastanza (per uno come Suvorin), una donna con un libro, l’amore con una poesia, un cappello in testa con la felicità … con la solitudine che la circonda, la solitudine che circonda tutti noi.”
“Vede, disse (il vecchio pianista riprendendo il discorso già intrapreso), la lettura di una poesia, la lettura di un racconto o di un romanzo, non sono eventi sociali. Uno si siede, da solo, da solo con sé stesso e un libro, e legge. E a volte si ferma a riflettere, accantona il libro aperto per ripensare a una frase, a un punto preciso, a una certa formulazione che gli rivela la bellezza della lingua. Da ogni cosa si può associare tutto con tutto” …
È così, magari non trapare, ma siamo esattamente a metà del libro che vado leggendo a ritroso, che rileggo (per voi) di quelle cose che avevo già lette ma che non sembrano le stesse “..sarebbe per me un onore se poteste aiutarmi”, perché non credo di averle comprese nel giusto modo in cui si deve. Vedete …
“Sebbene abbia due orecchie, amava dire, sono sempre unanimi. […] Non si mettono a tacere le voci interiori tappandosi semplicemente le orecchie. Allora poteva accadere di sembrargli che tutto il suo corpo, ogni poro della sua pelle,fosse un orecchio. Non bisognava contare sul fatto di migliorare ogni sera le proprie capacità (di musicista e amante della musica), ma se accadeva, (quando accadeva), la serata si trasformava in un giorno di festa.”
Per quanto la festa cui si riferisce Suvorin appartiene al mondo dei ricordi, a quando avverte di aver perso ogni piacere per l’insolenza, ed ha evidentemente interrotto i contatti con la famiglia, dimentico di ciò che avrebbe voluto diventare da bambino (?) e slacciatosi l’orologio dal polso lo lancia oltre la scogliera …
“Non so più cosa farmene di voi, voi numeri e lancette, voi ore, minuti, secondi. Glielo si legge in faccia, quella è la faccia della soddisfazione. […] A un certo punto parlano già abbastanza di me e si preoccupano anche che non faccio nient’altro che fissare un muro. Posso farlo per mezza giornat asenza annoiarmi. Non mi muovo, non penso a niente, non sono sveglio né dormo.”
Nient’altro? Che dire? Ho già detto molto nella prima parte di questa lunga recensione che potrei portare avanti ancora per molto. Non posso, mi dico, raccontarvi tutto il libro. Ascolto Suvorin parlare a più riprese, e lo ascoterei ancora per chissà quanto, prima di levarmi dal caldo tepore del divano … “..anche lì riesco a tornare in me solo compiendo un grande sforzo. Anzi, a dire il vero in quel caso è l’esatto contrario, compio un grande sforzo per cercare di non tornare più in me. […] Lo so, lo so. A un certo punto è tutto vietato, tranne morire.”
Aspetterò, mi dico, almeno fino all’arrivo delle belle giornate che la primavera come suo solito ha promesso, certo che manterrà i suoi impegni. Magari solo per raggiungere il caffè dei nostri incontri. Oh sì! Il tutto ha richiesto un’attenzione particolare, una lettura perspicace, onde rimembrare il tempo vissuto fra uggie e silenzi, mentre fuori continua a cadere la pioggia, ogni goccia una nota che s’accompagna al crepitio del fuoco acceso che surriscalda il torpore dell’ozio … non ne sentite la musica, no? …

Basta! “Non voglio più dormire, perché non voglio avere la faccia con cui mi sveglio – ripete Suvorin – Questo è tutto. Forse, sforzandomi, un giorno crederò finalmente anche all’autorità di ciò che, in malafede, chiamiamo caso.”
Nel frattempo … “Il caffè è colato, a gocce, nella tazza preriscaldata e così, a gocce – avverte l’autore – alias Suvorin mentre beve dalla tazza – Atteggia le labbra come un flautista l’imboccatura, ma quello che sentiamo non è un suono, è un sibilo, non forte, e nemmeno sgradevole, come un respiro, il respiro più piccolo che ci sia. La lingua, piegata a cucchiaio, accoglie la prima goccia, l’assorbe …

..felice come questo può rendere felici!”


L’autore.
Wolf Wondratschek, scrittore, poeta, sceneggiatore (Rudolstadt 1943), cavalca dagli anni ’60/’70 la scena letteraria internazionale, in cui è noto come esponente della Beat Generation tedesca. La sua produzione cinquantennale comprende anche racconti, reportage e radiodrammi che alterna con la critica sociale, scritti intimistici, e ritratti di artisti.
Tradotti in italiano sono reperibili oltre al titolo qui recensito, “Mara. Autobiografia di un violoncello.” Con CD audio – TEA 2008.

Edizioni Voland
www.voland.it
e-mail: redazione@voland.it

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